L MANIFESTO DE L’ITALIA DEL MERIDIONE
Quanto accaduto in questi mesi a seguito della pandemia Covid-19 comporta, senza dubbio, una rivisitazione dei paradigmi di sviluppo fin qui conosciuti e applicati e su cui molti s’interrogano prospettando visioni, architetture di mondi possibili. L’urbanizzazione selvaggia e l’elevata mobilità, che hanno contribuito alla diffusione della pandemia, sono anche caratteristiche del capitalismo che oggi piegato su se stesso induce a ripensare a nuove e avanzate forme di decentralizzazione sociale e urbanistica come risposta efficace alla crisi da un lato e, dall’altro, come occasione di sviluppo in sicurezza e sostenibilità. Ambiti che si legano in modo imprescindibile alle tematiche e progetti di rigenerazione urbana contro lo spopolamento dei piccoli comuni e la desertificazione delle aree decentrate, questione non più rinviabile. Il Covid-19 ha determinato il cortocircuito dell’estroversione performativa rovesciandola nell’immobilità della clausura, una clausura dalla quale si spera di essere definitivamente usciti ma che non possiamo etichettare come incidente di percorso. In molti conveniamo sulla necessità di una transizione che sia circospetta e graduale ma che al contempo sia strutturale, in quanto consci della discontinuità con il passato e delle sfide innovative che ci attendono. Dobbiamo elaborare un pensiero sull’avvenire partendo dalle incertezze del presente e trasformarle in lucide proposte, rivisitando quella modernità che ha migliorato le condizioni di vita di pochi e ha messo a repentaglio la continuità della vita stessa. Basti pensare alla divisione degli affetti e dei nuclei familiari, ai disagi derivanti dai tagli ai servizi, all’aumento delle diseguaglianze e ai divari nell’accesso alle opportunità, per cogliere immediatamente i nefasti fallimenti della forte urbanizzazione, acuiti inevitabilmente nell’eterno divario Nord-Sud, il primo vero ostacolo da rimuovere per favorire lo sviluppo dell’intero Paese. E se è vero che le disuguaglianze tra Nord e Sud aumentano, è altrettanto vero che a ciò vanno purtroppo a sommarsi i divari tra centri e periferie, tra città e campagne, tra aree urbane e aree interne. Proprio quest’ultime rappresentano il 60% del suolo nazionale e sono abitate da circa 10 milioni di cittadini pronti a cercare fortuna altrove.
Occorre ripartire, dunque, ridisegnando lo Stivale come un insieme di reali interconnessioni tra medio e piccoli centri, appunto, di limitate dimensioni: un processo di riconnessione non solo economica ma anche sociale e culturale che passerebbe da una grande stagione di investimenti atti alla restituzione di servizi e ripopolamento delle periferie urbane, delle comunità montane e marine, da troppo tempo relegate all’oblio. Se pensiamo a come sono cambiate le forme di lavoro, i cosiddetti “smart working” o “south working”, idee immaginate da tempo ma applicata solo oggi perché spinti dal contingente e non dal coraggio. Ripensare il lavoro in quest’ottica significa riflettere sulla propria quotidianità, sui rapporti sociali e sulla propria qualità di vita. L’imprevedibilità, la dirompenza, l’ampiezza e la profondità del cambiamento tecnologico, integrando processi produttivi e tecnologie digitali, investono tutti i domini dell’economia: dalla produzione, al consumo, ai trasporti, alle telecomunicazioni; non si tratta di una minaccia ma di una grande opportunità per l’Italia e in particolar modo per il Mezzogiorno, che grazie a queste trasformazioni cesserebbe di essere periferia dell’Europa. In un futuro non molto lontano, la scelta di eleggere una determinata città come luogo di residenza, non sarà dunque più determinata dalla prossimità con il luogo di lavoro ma dalla disponibilità di piattaforme idonee a svolgere la propria attività lavorativa quanto funzionale alla vita privata.
Ed ecco che ritorna anche in questo contesto la volontà di recuperare i borghi storici come modello di sviluppo. L’Italia è il paese delle mille tradizioni, dei tanti dialetti, dei tanti angoli splendidi e sconosciuti ma ognuno con il proprio tema, il proprio racconto, la propria particolare tipicità emozionale. Connotazioni che andrebbero e devono essere trasmessi al visitatore attraverso i manufatti architettonici, le botteghe degli antichi mestieri e relative scuole di formazione, le tradizioni enogastronomiche e culturali, le esposizioni museali e informative. L’obiettivo deve essere quello di rendere attraenti i piccoli insediamenti non solo per turisti e visitatori, in virtù delle indiscusse peculiarità, ma anche per quelle che sono state recentemente definite le “comunità emergenti”, nella cui eccezione sono da ricomprendere non solo gli immigrati ma anche gli operatori delle nuove professioni, i pensionati attivi, i migranti di ritorno e i migranti delle coste in arretramento a causa dei mutamenti climatici in atto.
La partita da giocare è quindi quella di rendere attraenti i borghi per queste comunità di potenziali nuovi residenti, prodotto delle grandi trasformazioni economiche e sociali che impattano non solo sulla nostra economia, i modelli di business e i processi produttivi ma anche sulla qualità e quantità dell’occupazione, le competenze e la formazione del capitale umano, le relazioni industriali e gli stessi schemi tradizionali dei rapporti di lavoro.
Ebbene, cosa offre oggi il mercato urbano in Europa a queste comunità emergenti? L’offerta dominante è quella cosiddetta “città diffusa” o “città di città”, caratterizzate da un nucleo centrale e da contigui insediamenti urbani di medie e piccole dimensioni. Dal punto di vista prettamente economico, questa forma urbana si caratterizza, rispetto alla città metropolitana novecentesca, per la necessità di promuovere un rinnovato connubio tra la tutela della tradizione e l’indispensabile apporto delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e dell’economia digitale. Mentre il modello urbano tipico del ventesimo secolo era fondato sullo sviluppo industriale, relegando alle campagne il ruolo di fonte di approvvigionamento alimentare, l’attuale modello appare molto più complesso e di difficile tracciabilità.
La “città diffusa” delinea, dunque, una nuova forma urbana composta, in quanto costituita da un nucleo centrale, il vecchio capoluogo di provincia, e da altre realtà urbane, spesso di piccole dimensioni, situate in prossimità. Queste ultime, spesso, non sono affatto delle realtà marginali e anzi rappresentano una risorsa fondamentale per lo sviluppo locale del Paese, non solo dal punto di vista economico, in quanto custodi delle tradizioni del territorio ma anche come consistente bacino demografico e, sotto il profilo storico e artistico, come testimoni della loro plurimillenaria identità.
È proprio in queste emergenti realtà, come dire “a misura d’uomo” e con ingente capitale non solo ambientale ma anche storico-artistico e culturale, che la dimensione di quelli che possono essere definiti borghi storici ospitali si può giocare un ruolo di primo piano. Ruolo che, tuttavia, deve essere valorizzato mediante una strategia integrata di sviluppo locale e non, viceversa, con singoli micro-interventi del tutto incapaci da soli di generare un indotto positivo nell’economia del territorio locale. In questa competizione, l’offerta non può ovviamente essere giocata dalle singole municipalità ma da quella rete che lega la città polo ai suoi satelliti, che dovranno farsi “smart village”, i cosiddetti “villaggi intelligenti”, ossia aree rurali e comunità che si basano sui loro punti di forza e sullo sviluppo di nuove opportunità attraverso innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale. I benefici che tali territori possono ricavare da questo nuovo approccio particolarmente ambizioso non possono essere sottovalutati in quanto, nella realtà attuale, la velocità di connessione è fondamentale per uno sviluppo economico e per permettere anche alle regioni più isolate di essere competitive sul mercato globale. La sfida è dunque quella, da un lato, di dimensionare il borgo alle future e mutate esigenze delle nuove comunità emergenti e, dall’altro, di rimuovere tutte le barriere materiali e immateriali che oggi lo rendono poco attraente agli occhi di un residente stabile. Gli investimenti devono essere volti a realizzare nei borghi storici reti immateriali (in primis la banda ultra-larga, educazione e sanità), reti materiali (viabilità e alloggi) e resilienza del territorio (permeabilità, questione idrica). I vantaggi che qualsiasi cittadino può trarre da una rete capillare ed efficiente sono sotto gli occhi di tutti e di conseguenza ogni cittadino deve essere messo in condizione di usufruire di questi vantaggi. La rete è forse uno dei pochi strumenti che ha un ruolo trasversale, in grado di influenzare i diversi settori dell’economia: mobilità, turismo, cultura, sanità, occupazione, scuola, sono solo alcuni dei settori che possono trarne vantaggi tangibili. La Commissione Europea, vari Atenei e centri studio sostengono, attraverso proposte fattive, come il rilancio delle aree interne passi per gli “smart villages”, i cosiddetti “villaggi intelligenti”, ossia aree rurali e comunità che si basano sui loro punti di forza e sullo sviluppo di nuove opportunità attraverso innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale. Nel contesto italiano sono tanti i piccoli comuni, borghi rurali, in grado di intraprendere il cammino dello smart village e rappresentare un esempio di sostenibilità e opportunità. Vi sono, tra l’altro, diversi esempi in Europa e nel nord Italia stesso, basati su un consumo idrico ed energetico più intelligente e il recupero di terreni abbandonati riconvertiti alla produzione di frutta biologica e la creazione di alberghi diffusi. Dunque uno degli orizzonti da raggiungere è il modo in cui nelle aree rurali e nelle periferie i servizi in settori fondamentali, quali la salute, i servizi sociali, l’istruzione, l’energia, la mobilità, il commercio, possano essere migliorati e resi più sostenibili e innovativi.
Nuove forme di lavoro, nuovi scenari aggregativi: è l’inizio di una nuova era nella quale si possono vivere benefici anche al di fuori delle metropoli, senza ingorgare strade e metropolitane, migliorando la qualità della vita e delle relazioni. È inevitabile come tale processo non possa che essere il prodotto di riabilitazione territoriale mediante investimenti in servizi, infrastrutture, presidi scolastici e sanitari (rafforzando anche il ruolo della medicina territoriale), reti digitali ecc. Nuove comunità insediate nelle vecchie periferie ma con una forte connotazione innovativa, a dimensione d’uomo e che non facciano soffrire le distanze geografiche.
Sono queste le strategie che una classe dirigente consapevole e con lunga visione, deve mettere in campo per costruire un futuro sostenibile ed è con questa consapevolezza che Italia del Meridione propone in una sorta di manifesto politico indirizzato ai sindaci in primis e poi a tutti i rappresentanti istituzionali delle comunità affinché la tanto decanta valorizzazione dei borghi diventi realtà, una sfida da cogliere attraverso l’urgenza e la capacità d’investire in progetti che sappiano coniugare tradizione e innovazione. Italo Calvino in “Le città invisibili” scriveva: “Le città come i sogni sono costruite di desideri o di paure”, oggi è possibile trasformare la paura in opportunità attraverso un’azione corale che porta a ripensare e disegnare il futuro dei nostri luoghi.
La politica è lo specchio della società ma mai come adesso la stessa deve avvertire la santità e la solennità di questo impegno perché, come scriveva Platone sull’esercizio del potere, che la politica dia un’occhiata alla posta, perché il postino, dopo, non suona sempre due volte.