C’è un evidente non detto in quello che si dice sull’autonomia differenziata, imposta dalle regioni della Lega come secessione in forma edulcorata. Il testo già nelle motivazioni è un gioco a nascondere, invocando in prima istanza la burocrazia come ostacolo da rimuovere.
Di certo quel testo ha messo d’accordo tutte le regioni e i comuni del meridione d’Italia, in un sentire comune che resta però ancora non detto.
Siamo poi al paradosso che sia proprio il partito dell’inno nazionale di “Fratelli d’Italia” a firmare la fine dell’Unità del Paese.
Una storia ritorna sempre all’inizio quando finisce. Arriva dove tutto era cominciato da quegli stati regionali fatti di ducati, principati e regni che soffrivano dogane e differenze monetarie. Allora c’era più unione degli italiani di quanto non ci sia stata in tutta la storia della sua unità.
A scuola imparavamo la frase attribuita a Metternich che, al Congresso di Vienna, avrebbe detto che “la parola Italia è solo un’espressione geografica”. L’unità è una misura, l’unione è partecipazione, che si dà quando le parti concorrono insieme.
La storia delle “due velocità” è un falso. La “questione meridionale” è la tassa cumulativa di tutti i pregiudizi dai quali liberarsi una volta per tutte. Le due velocità sono una falsificazione storica. Ai nastri di partenza dell’Unità il cosiddetto Sud era già Europa.
Non ci sono due velocità, ci sono due direzioni diverse, ci sono due culture, due binari, due destinazioni. Sarebbe poi questa la prospettiva dalla quale partire insieme, partendo dalle scuole, dalla sanità, dalla gioia di stare insieme.
L’Unione è data dalle differenze, solo se non si differenziano. Siamo invece ancora all’“unità” di misura che distingue il più e il meno.
Le differenze non sono tali per quantità, la qualità dice la loro proprietà di genere. Dire due velocità è costringere a stare al passo di una sola direzione come nel paradosso di Achille e la tartaruga.
I LEP, livelli essenziali di prestazione, del testo degli secessionisti, sono ancora su questa linea di una sola unità di misura. Eliminare dal testo di Calderoni la “spesa storica” è stato una mistificazione ipocrita. I LEP la confermano e l’esaltano. Come dire mettetevi al passo su un cammino dove “noi altri” siamo già molto avanti e chiedete contributi di conseguenza come “noi altri” ne chiediamo per avanzare dal punto di distanza da cui siamo. Mettetevi prima a livello di partenza, intanto che noi altri, differenziati da voi, avanziamo.
È come voler costringere chi viaggia sulla propria corsia a stare dietro nella corsia di un altro, che gli fa perdere strada e tempo, fiato e traguardo, confondendo premi e obiettivi. In termini storici le “distrazioni” di corsia sono state le cattedrali nel deserto. Senza contare il mercato umano delle migrazioni da una corsia a un’altra e la distrazione di flussi finanziari come per la sanità. La corruzione continua è poi stata l’effetto di adesione a un modello inadeguato alle vocazioni dei territori.
Le statistiche della “qualità della vita”, che premiano le città del benessere, le leggiamo con stupore pensando che sono quelle dove non andremmo mai a vivere, se non deportati dalla disperazione. La quantità di benessere non coincide con la qualità della felicità. Noi qui siamo felici e disperati, dall’altra parte sono benestanti, non felici.
La differenza la fa la qualità non la quantità, il più e il meno non dicono della qualità del tempo vissuto.
Bisogna però accettarla la sfida della “autonomia differenziata” leggendola nella sua verità di secessione. L’Italia ne uscirà più debole, perché c’è ricchezza solo quando le differenze non si differenziano per quantità.
Gli effetti della differenziazione si vedranno nella recrudescenza della violenza che potrà esplodere quando il divario delle “due velocità” sarà ancora più forte.
Bisogna però sfidarla la secessione. “A ciascuno il suo” significhi essere più nell’unione dell’Europa e meno nell’unità dell’Italia differenziata.
Questo è il non detto, che bisogna dire con forza ed è sentito ma non pronunciato per prudenza e onestà verso l’Unità rimasta, il desiderio dell’Unione mai realizzata.
A volerla seguire la “spesa storica” dei territori dalla loro origine potremmo parlare di ben altri finanziamenti per città che dovrebbero avere un corrispettivo delle loro esigenze a riguardo della popolazione e dei beni culturali e di quella ricchezza lasciate all’abbandono per mancanza di risorse.
Conviene dirselo. Sfidare significa provare a stare in Europa in forma autonoma e non in Italia in modo confuso. Significa pretendere lo stanziamento del PNRR senza sottrazioni, promuovendo linee di sviluppo proprie dei territori che riguardino in prima istanza la scuola, la sanità, la cultura, i monumenti, con idee e forze innovative. La direzione dell’Italia del Meridione è l’Europa del Mediterraneo. Ci aspetta e ci spetta.
Qui l’impegno è tale da reclamare dapprima la reale autonomia dell’unione del cosiddetto Sud perché il meridione smetta di essere un’espressione geografica e diventi una ragione sociale e politica nell’espressione dell’Italia del Meridione, contributo d’essere Italia insieme.
È un paradosso che sia prevalente per i “meridionali” sentirsi “italiani” e a lottare contro l’autonomia differenziata per l’unità del Paese come unione delle differenze. Bisogna partire da sé e non per adeguarsi ai modelli, ma adeguare i modelli all’esperienza e alle vocazioni dei luoghi. L’Italia del Meridione è la sola forza in grado di portare una tale prevalenza nella potenza senza differenziazioni della propria differenza.
Differenziare è escludere, la differenza si differenzia, partecipa dell’unione senza alcuna unità di misura precostituita. Bisogna essere di parte senza essere parziali. L’unione è una disposizione, la sua verità è congiuntiva.
La politica a livello più alto si misura dalla manutenzione dei legami sociali. La libertà è fatta di legami. Nessuno è libero da solo.
Giuseppe Ferraro
Fondatore e ideologo Italia del Meridione